Articoli Scientifici

I DOLCIFICANTI NON CALORICI POSSONO MIGLIORARE I RISULTATI DELLE DIETE DIMAGRANTI?

Adolfo Fossataro – Stefania Rosi, AIDAP La Spezia
Fonte: Gallus S, Odone A, Lugo A, Bosetti C, Colombo P, Zuccaro P, La Vecchia C. (2012).
Overweight and obesity prevalence and determinants in Italy: an update to 2010. Eur J Nutr. 2012 May 27.

In molti paesi del mondo l’obesità ha raggiunto proporzioni epidemiche e, di conseguenza, la ricerca sulle cause e sulle possibili soluzioni a questa patologia continua incessantemente. Nelle ultime decadi, l’incremento nel consumo di dolcificanti calorici ha prodotto un sensibile aumento della prevalenza di obesità. Ovviamente questo non è l’unico fattore, ma esistono prove evidenti che le bevande addizionate con dolcificanti calorici favoriscono l’aumento di peso sia nei bambini che negli adulti. I dolcificanti non calorici (NNS), pertanto, sono diventati oggetto di studio da parte della comunità scientifica per l’importanza che potrebbero avere come sostituti del saccarosio.
Al momento le ricerche hanno prodotto risultati discordanti. Alcuni studi hanno evidenziato l’associazione tra il consumo di NNS e la perdita di peso, altri hanno trovato che alcuni di essi possono stimolare l’appetito e, quindi, favorire l’aumento di peso. Dal momento che il consumo di cibi e bevande addizionate con NNS è aumentato notevolmente nel corso dell’ultima decade, è importante capire il loro effettivo impatto sul peso corporeo.

Peters e coll. hanno recentemente affrontato questo problema in uno studio clinico randomizzato della durata di un anno composto da una fase iniziale di perdita di peso della durata di 12 settimane seguita da una fase di nove mesi di mantenimento del peso. A questo scopo, 303 partecipanti in sovrappeso e obesi (classe I e II) sono stati suddivisi in due gruppi: al primo è stato prescritto il consumo di 680 ml circa al giorno di bevande addizionate con NNS (senza nessuna restrizione sul consumo di acqua), mentre al secondo gruppo è stato prescritto il consumo di almeno 680 ml circa di acqua al giorno e il divieto di consumare bevande dolcificate con NNS. A entrambi i gruppi è stato permesso il consumo di cibi addizionati con NNS. Tutti i partecipanti hanno seguito un programma completo di tipo comportamentale in cui veniva data uguale importanza ai comportamenti alimentari e all’attività fisica. Il fabbisogno calorico di ogni partecipante è stato calcolato sul metabolismo basale individuale con aggiustamenti tali da poter ottenere una diminuzione di peso di circa 0,5-1 kg a settimana.

I dati che si riferiscono alle prime 12 settimane dello studio, hanno evidenziato una significativa differenza nella perdita di peso a favore del gruppo a cui era permesso bere bevande con NNS: 5,5 kg contro 3,8 kg del gruppo che assumeva solo acqua. Nel corso delle settimane anche i punteggi sul senso dell’appetito si sono rivelati inferiori nel gruppo delle bevande con NNS rispetto all’altro gruppo, anche se la differenza è stata minima. I partecipanti che assumevano bevande con NNS hanno riportato altresì una maggior riduzione dei valori di colesterolemia totale e della frazione LDL che gli autori attribuiscono, con molta probabilità, alla maggior riduzione di peso corporeo che si è verificata in questo gruppo.

Due sono i punti di forza di questo lavoro. Primo, è stato condotto in due località distinte (Colorado e Temple) il che rende più affidabile la generalizzazione dei risultati ottenuti. Secondo, sono stati inclusi individui di entrambi i sessi con percentuale simile nei due siti di ricerca (80% circa di donne in entrambi i gruppi). Inoltre, tra i partecipanti sono state incluse anche le minoranze razziali: il 27% circa era composto da americani di origine africana. L’adesione allo studio in entrambi i gruppi è stata altissima (oltre il 95% in ognuno) e il 92% dei partecipanti iniziali ha raggiunto la valutazione finale nel follow-up a 12 settimane.

Nonostante i risultati importanti ottenuti, alcuni aspetti restano ancora da chiarire.
Primo, il periodo di 12 settimane durante il quale si è svolta la prima fase dello studio è troppo breve. Restiamo in attesa di risultati ad almeno un anno per valutare in maniera più approfondita gli effetti dei NNS sulla perdita di peso.

Secondo, non abbiamo dati certi sulla quantità precisa di NNS assunti attraverso le bevande e gli alimenti sia nel periodo precedente allo studio che nel corso dello stesso.
Terzo, non è emerso dallo studio il meccanismo attraverso cui si verificherebbe una perdita di peso maggiore nel gruppo che assumeva le bevande con NNS rispetto all’altro gruppo. Poiché non si sono verificati cambiamenti nei comportamenti sedentari e nei livelli di attività fisica nei partecipanti di entrambi i gruppi, è da ritenere che la perdita di peso maggiore registrata nel gruppo che assumeva le bevande con NNS sia da attribuire alla riduzione dell’introito calorico. Purtroppo, però, non abbiamo dati sull’assunzione calorica dei partecipanti e nemmeno sull’adesione alle raccomandazioni dietetiche. Senza questi dati non è possibile affermare se il calo di peso corporeo sia attribuibile a un diverso introito calorico tra i due gruppi o se esiste un’altra causa potenziale.
Quarto, non sappiamo se i diversi tipi di NNS hanno effetti diversi sulla perdita di peso e sul metabolismo. In questo studio, ai partecipanti è stato permesso l’uso di qualunque tipo di NNS, tuttavia studi precedenti suggerivano che non tutti gli edulcoranti avessero lo stesso effetto sul metabolismo.

Possiamo concludere che i risultati di questo studio forniscono un importante contributo alla letteratura su questo argomento e promuovono il consumo di bevande dolcificate con NNS nel corso di un programma finalizzato alla perdita di peso corporeo. Tuttavia, questi dati devono essere considerati con cautela, poiché non conosciamo gli effetti a lungo termine e i meccanismi d’azione di questi edulcoranti sulla perdita di peso.
Ulteriori studi sono necessari per chiarire se tutti i NNS hanno gli stessi effetti metabolici o se ci sono differenze tra loro. Fino ad allora, ne è sconsigliato l’uso massiccio nei programmi finalizzati alla perdita di peso corporeo.

DETERMINANTI COMPORTAMENTALI DELL’OBESITÀ: RISULTATI DELLA RICERCA E IMPLICAZIONI POLITICHE

Adolfo Fossataro, Stefania Rosi – AIDAP La Spezia
Fonte: Affenito SG, Franko DL, Striegel-Moore RH, Thompson D. Behavioral determinants of obesity: Research findings and policy implications. J Obes. 2012;2012:150732. Epub 2012 Aug 16.

L’obesità rappresenta in tutto il mondo un problema di salute pubblica e costituisce la causa di molte patologie ad essa correlate. Nel periodo tra il 1980 e il 2008 la prevalenza di obesità nel mondo è raddoppiata. Infatti, considerando come misura di classificazione l’Indice di Massa Corporea (IMC) ≥ 30 kg/m©˜, nel 1980 il 5% degli uomini e l’8% delle donne era obeso, mentre quasi 30 anni dopo la percentuale di obesità era del 10% per gli uomini e del 14% per le donne. I dati attuali riferiscono che oltre mezzo miliardo di adulti nel mondo sono obesi (si stimano 297 milioni di donne e 205 milioni di uomini). L’obesità infantile presenta lo stesso ritmo di crescita: nel 1990 il 4.2% dei bambini era sovrappeso od obeso e nel 2010 questa percentuale era arrivata al 6.7%. Il dato preoccupante riguarda la previsione dei bambini obesi nel 2020: si stima saranno il 9.1%, ossia 60 milioni in tutto il mondo. Inoltre, dal momento che, con molta probabilità, un bambino obeso è un potenziale adulto obeso con tutte le complicanze mediche e psicologiche che questa condizione comporta, la prevenzione diventa una necessità fondamentale.

Individuare i determinanti dell’obesità è un passo decisivo per promuovere programmi di prevenzione efficaci basati sui complessi aspetti multifattoriali che sono all’origine dell’obesità stessa. Inoltre, le interazioni tra i diversi fattori che influiscono sul suo sviluppo sono ancora poco conosciute. Pertanto, è indispensabile affrontare il problema per cercare di rallentare, e possibilmente invertire, il progredire di questo fenomeno definito come “pandemia globale” di obesità.

Gli studi effettuati per affrontare questo problema hanno preso in considerazione sia i fattori comportamentali sia quelli ambientali allo scopo di contrastare il fenomeno attraverso strategie di salute pubblica finalizzate alla promozione di un’alimentazione sana e all’aumento dei livelli di attività fisica. A tale scopo si è rivelato molto utile l’approccio “ecologico”. Esso è stato descritto come un multilivello (regioni, nazioni, stati, città e quartieri) che prende in considerazione i componenti “multistrutturali” (ambiente, stato socio-economico e relazioni sociali) e i comportamenti legati allo stile di vita (dieta, attività fisica e stress) a diversi livelli istituzionali (scuola, famiglia, governo locale ed enti locali), con l’obiettivo di spiegare le interazioni multiple e complesse legate all’obesità.

Tra i fattori che favoriscono un IMC ≥ 30 kg/m² ci sono l’eccessivo introito calorico, la scarsa attività fisica e le influenze ambientali. È stato, inoltre, evidenziato che determinati comportamenti alimentari sono associati all’obesità; tra questi il consumo di pasti veloci e fuori casa, l’aumento delle porzioni di cibo, il consumo frequente di bevande zuccherate e l’abitudine da parte di molti a non fare la prima colazione. Oltre a queste abitudini non salutari, sono state individuate alcune variabili multistrutturali, come l’ambiente e lo status socioeconomico, ritenute responsabili di condizionare l’assunzione di cibo e il dispendio energetico. Le influenze ambientali riguardano la vicinanza ai supermercati e ai fast-food, la qualità degli istituti scolastici, l’opportunità di stabilire relazioni sociali con i vicini di casa e la possibilità di accedere a strutture sportive. Queste condizioni, infatti, influiscono molto sull’IMC degli adolescenti, specialmente quelli appartenenti alle fasce più svantaggiate della popolazione. Nei paesi industrializzati lo status socioeconomico, il reddito e il livello d’istruzione sono inversamente correlati all’obesità, mentre nei paesi in via di sviluppo la prevalenza di obesità è maggiore tra le persone che hanno uno status socioeconomico più elevato e che vivono in aree urbane.

Esaminando la potenziale associazione tra lo stato socioeconomico, l’ambiente, la presenza di fast-food ed il sovrappeso, uno studio ha osservato che le caratteristiche del luogo di residenza, come la concentrazione di locali dove si servono cibi veloci, la bassa disponibilità finanziaria e le diversità nello stato sociale, rappresentano fattori determinanti sulla distribuzione territoriale del sovrappeso. L’esposizione ai fast-food è stata anche esaminata tra i giovani in uno studio longitudinale. I risultati hanno evidenziato come le aree con reddito medio familiare più elevato e locali dove consumare cibi veloci sono meno numerosi e più cari siano associate a un ridotto consumo di questi cibi tra gli adolescenti. Questi due studi mostrano l’importanza del ruolo dell’ambiente e dello status socioeconomico sulla scelta del cibo. È evidente che sono necessari interventi sociali per poter offrire a tutti la possibilità di reperire cibi sani e di praticare attività fisica.

I cambiamenti ambientali e sociali, comprese le abitudini alimentari, lo stile di vita più moderno, l’urbanizzazione e la globalizzazione della catena alimentare hanno influenzato l’aumento della prevalenza di obesità sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo. Usando i dati trasversali di uno studio nazionale è stato osservato che poco più del 60% di Palestinesi tra 18 e 64 anni erano sovrappeso (38%) od obesi (24,4%) e l’obesità era prevalente nelle aree urbane. Mentre lo studio non ha permesso ai ricercatori di esaminare i potenziali fattori che contribuiscono alla prevalenza di obesità, i risultati hanno, invece, chiarito i cambiamenti nel consumo di cibo e nella pratica sportiva in conseguenza all’urbanizzazione. Le variabili demografiche come l’età, il livello d’istruzione, il sesso e lo stato civile sono anch’esse associate all’IMC. Rispetto agli uomini, più alti livelli di obesità e ridotta attività fisica sono stati riscontrati tra le donne Palestinesi meno istruite. È interessante notare che questo studio ha riscontrato che l’associazione fattori socioeconomici/obesità cambia in relazione ai sessi e al grado d’istruzione (un alto livello d’istruzione è associato ad un maggior rapporto vita/altezza negli uomini, mentre nelle donne avviene il contrario). Gli stessi autori ipotizzano la mancanza di impianti sportivi come un potenziale fattore che contribuisce all’obesità tra le giovani donne in Palestina. È da chiarire se le donne palestinesi con più alto livello d’istruzione possano avere più facilmente accesso, rispetto alle altre donne, a strutture sportive. La mancanza di esercizio fisico potrebbe essere un possibile meccanismo che lega un basso stato socioeconomico con alti livelli di obesità. Quando si interpretano questi risultati bisogna, però, tenere in considerazione l’aspetto culturale e l’atteggiamento di queste ragazze circa lo sport e l’attività fisica all’aperto. Inoltre, nei Paesi in via di sviluppo, le ragazze sono più occupate nelle faccende domestiche e meno in attività ludiche rispetto alle coetanee dei paesi industrializzati. La letteratura scientifica suggerisce, ancora, che le persone con uno status socioeconomico più elevato, oltre ad aver più facilmente accesso a strutture sportive, hanno la possibilità di acquistare cibi più salutari e consumano meno frequentemente cibi veloci. Il costo elevato del cibo è un ostacolo ad un’alimentazione sana, pertanto, le persone con più disponibilità economiche hanno maggiori risorse per proteggersi da un ambiente obesogenico.

Le influenze sociali, quindi, favoriscono lo sviluppo dell’obesità attraverso numerosi meccanismi: la modificazione delle abitudini alimentari e dello stile di vita, la maggiore disponibilità di cibo, la globalizzazione dei mercati e l’urbanizzazione. Ulteriori indagini sono comunque necessarie per chiarire i meccanismi che legano lo status socioeconomico all’obesità. Questo aspetto ha implicazioni politiche profonde, specialmente se sono necessarie risorse pubbliche per superare le barriere economiche al fine di combattere l’obesità.

La tecnologia ha supportato alcuni ricercatori canadesi nell’ottenere i dati relativi a 59 scuole sia pubbliche che private di Alberta (Canada) per osservare, attraverso il web, i fattori comportamentali che influiscono sul peso e sull’attività fisica tra gli studenti delle scuole medie inferiori e superiori. Uno studio recente ha riscontrato che gli studenti normopeso consumavano la prima colazione e spuntini più equilibrati, ossia più ricchi di carboidrati e fibre, assumevano meno grassi e svolgevano maggior attività fisica rispetto agli adolescenti obesi. Una migliore comprensione circa l’associazione tra comportamenti alimentari e peso corporeo deve tenere in considerazione anche la potenziale influenza di altri fattori che riguardano il cibo, come la praticità nella preparazione, la palatabilità e il basso costo che possono influenzare la scelta finale dei consumatori.

Oltre ai fattori culturali, è importante considerare anche i fattori individuali e sociali che influiscono sul consumo dei pasti e che possono spiegare le differenze della prevalenza di obesità tra i sessi. Infatti, uno studio ha riscontrato che per le donne il periodo che intercorre tra l’adolescenza e l’età adulta è critico per l’aumento di peso. Oltre ai cambiamenti fisiologici che avvengono nel corso della maturazione, in questo periodo i giovani acquisiscono più autonomia nella pianificazione dei pasti, nell’acquisto di cibo e nella sua preparazione. I comportamenti alimentari dei giovani sono influenzati anche dai cibi che trovano a scuola, dove trascorrono buona parte della giornata, e non solo a casa. Si evidenzia, quindi, l’importanza dell’ambiente scolastico, sia in termini di disponibilità di pasti e di spuntini sani che nei programmi che promuovono un’alimentazione corretta e attività fisica costante. Inoltre, è necessario che anche l’ambiente domestico aiuti i ragazzi a sviluppare abitudini alimentari che permettano il controllo del peso corporeo.

Uno studio evidenziato che la disponibilità a casa di frutta e verdura e gli eventi stressanti influiscono sul consumo di questi alimenti tra le donne americane di origine africana e ispanica, un segmento di popolazione a rischio di sviluppare obesità (diminuzione dei livelli di stress sono invece associati all’aumento del consumo di frutta e verdura). Poiché le diete ipocaloriche finalizzate alla perdita e al mantenimento del peso corporeo sono ricche in frutta e verdura, i risultati di questo studio sono importanti e possono fornire informazioni per i programmi di educazione alimentare mirati a questo target di popolazione.

Dai dati ottenuti dalle diverse ricerche, risulta pertanto evidente che l’obesità deve essere studiata nel contesto sociale in cui i comportamenti individuali legati al cibo e all’attività fisica vengono messi in atto. L’individuazione dei molteplici stili di vita può essere un mezzo efficace per contrastare l’obesità, piuttosto che l’analisi di singoli specifici aspetti che favoriscono l’aumento di peso. Quanto sopra esposto si aggiunge all’evidenza sempre maggiore secondo cui un corretto stile di vita può essere messo in pratica solo se sostenuto dall’ambiente circostante e dai fattori culturali. Abitudini alimentari scorrette e bassi livelli di attività fisica sembrano molto diffuse e nell’immediato favoriscono l’aumento di obesità e nel lungo termine predispongono all’insorgenza di malattie croniche: per questo motivo, è necessario avviare iniziative di salute pubblica a vari livelli che tengano in considerazione le variabili che influenzano le abitudini alimentari e la pratica sportiva.

TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE OSPEDALIERA PER IL TRATTAMENTO DELL’ANORESSIA NERVOSA: UNO STUDIO RANDOMIZZATO E CONTROLLATO

A cura di: Adolfo Fossataro, Stefania Rosi – UOL La Spezia
Fonte: Dalle Grave R, Calugi S, Conti M, Doll H, Fairburn CG. Inpatient Cognitive Behaviour Therapy for Anorexia Nervosa: A Randomized Controlled Trial. Psychother Psychosom (2013) 82(6):390-8.

Il luogo ideale per il trattamento dei disturbi dell’alimentazione è il contesto ambulatoriale. Purtroppo un sottogruppo di pazienti non risponde al trattamento ambulatoriale o si trova in condizioni cliniche gravi, tali da dover richiedere un day-hospital o un ricovero riabilitativo. La maggior parte di questi pazienti sono affetti da anoressia nervosa.

Con il ricovero si ha un maggior recupero ponderale in breve tempo. Tuttavia, solo pochi pazienti mantengono il peso raggiunto e nel primo anno dalla dimissione il 30-50% necessita di un nuovo ricovero.

Il fallimento nel mantenere i cambiamenti ottenuti durante l’ospedalizzazione ha spinto a sviluppare nuovi interventi post-ospedalizzazione per prevenire le ricadute, con scarsi risultati.
Il presente articolo ha l’obiettivo di testare un nuovo programma durante il ricovero che aiuti a ridurre le ricadute. Per questo, il tradizionale trattamento ospedaliero multidisciplinare eclettico, usato finora, è stato sostituito da un programma basato sulla terapia cognitivo comportamentale “potenziata” (CBT-E) per i disturbi dell’alimentazione, una forma di trattamento esplicitamente sviluppata per ottenere risultati duraturi.

La CBT-E esiste in due versioni, la forma focalizzata (CBT-Ef) mirata esclusivamente ad affrontare la psicopatologia specifica dei disturbi dell’alimentazione e la forma allargata (CBT-Eb) che affronta anche alcuni meccanismi esterni alla psicopatologia del disturbo dell’alimentazione (intolleranza alle emozioni, perfezionismo clinico, bassa autostima nucleare e problemi interpersonali) fattori che, in un sottogruppo di pazienti, sembrano ostacolare il cambiamento. Al momento, non ci sono dati clinici sugli effetti di queste due forme di trattamento nei pazienti con anoressia nervosa.

Lo studio è stato disegnato per rispondere a tre importanti quesiti: i) tra i pazienti con anoressia nervosa ospedalizzati, qual è la percentuale di coloro che completa il trattamento? ii) tra coloro che completano il trattamento, qual è l’esito? iii) i cambiamenti sono mantenuti nel tempo?

A tale scopo, è stato valutato un campione di 80 pazienti con anoressia nervosa ricoverati consecutivamente presso la Casa di Cura Villa Garda. I pazienti sono stati randomizzati ai due tipi di terapia CBT-Ef e CBT-Eb. Le valutazioni (peso, indice di massa corporea, psicopatologia specifica e generale) sono state effettuate all’ingresso, alla dimissione e a 6 e 12 mesi di follow-up.

Lo studio evidenzia quattro risultati principali: i) l’accettabilità della CBT-E è molto alta con oltre l’80% dei pazienti che accetta di iniziare la terapia e il 90% che completa il ricovero; ii) alla fine del ricovero, la media del recupero di peso corporeo è di 12,7 kg (oltre il 75% raggiunge un indice di massa corporea nell’intervallo del normopeso) e il miglioramento della psicopatologia generale e specifica del disturbo dell’alimentazione è consistente; iii) i miglioramenti sono mantenuti ai successivi follow-up, tranne il peso corporeo che diminuisce lievemente dopo i primi 6 mesi di follow-up, ma poi si stabilizza a 12 mesi. Questa diminuzione ha riguardato principalmente i pazienti adulti, mentre il risultato tra i pazienti adolescenti è stato ottimo (73,9% con percentile di indice di massa corporea corrispondente al cut-off di 18,5 dopo 12 mesi); iv) non sono state evidenziate differenze significative nei risultati ottenuti, a breve e a lungo termine, tra i due gruppi di pazienti randomizzati alla CBT-Ef e alla CBT-Eb.

Punti di forza di questo studio: i) risultati robusti e generalizzabili grazie ad un campione ampio e rappresentativo raccolto in un centro di ricovero ospedaliero italiano; ii) i casi erano gravi (oltre il 75% con indice di massa corporea<16); iii) la CBT-E è usata come unico trattamento di psicoterapia; iv) i pazienti vengono seguiti per un anno dalla dimissione ospedaliera; v) tutti i markers clinici sono stati esaminati sia utilizzando procedure di validazione psicometrica che il giudizio clinico.

Limitazioni: i) inevitabilmente il follow-up non era chiuso, quindi dopo la dimissione quasi tutti i pazienti hanno seguito una terapia ambulatoriale, complicando così l’interpretazione dei risultati di follow-up; ii) un periodo di follow-up più lungo avrebbe permesso di determinare la stabilità dei cambiamenti a lungo termine; iii) nessuna indagine è stata condotta sui fattori di mantenimento non specifici impedendo così un’analisi sui moderatori di trattamento; iv) l’assenza di un gruppo di controllo impedisce di confrontare i risultati ottenuti con quelli di altre forme di trattamento applicate in regime di ricovero.

In conclusione, questo studio dimostra che la CBT-E è ampiamente accettata da pazienti ricoverati affetti da anoressia nervosa in forma grave. Il 90% dei pazienti ha completato il trattamento e la maggior parte di loro ha mostrato miglioramenti significativi. Si sono verificati segni di peggioramento sul peso, dopo la dimissione, ma sono stati di lieve entità, limitati nel tempo e ai pazienti adulti. Sebbene non si possa affermare che la CBT-E applicata ai pazienti ricoverati sia più efficace di altre forme di trattamento, la CBT-E ospedaliera ha un punto di forza importante: è pienamente compatibile con la CBT-E ambulatoriale, un tipo di trattamento adatto alla cura di pazienti dopo la dimissione ospedaliera. In questo modo, i pazienti possono seguire un trattamento senza soluzione di discontinuità dal periodo di ricovero fino alla terapia ambulatoriale. Questo approccio coerente e continuativo potrebbe migliorare i risultati a lungo termine ed evitare il passaggio da un intervento terapeutico all’altro come spesso accade a questi pazienti dopo la dimissione.

LA FIBROSI CISTICA: CENNI SULLA PATOLOGIA, LA TERAPIA DIETETICA E IL TRATTAMENTO DIGESTIVO NUTRIZIONALE

Adolfo Fossataro e Stefania Rosi – Aidap La Spezia

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La Fibrosi Cistica (FC) è una malattia genetica ereditaria che può essere definita rara e viene trasmessa con meccanismo autosomico recessivo. È causata da mutazioni del gene CFTR (Cystic Fibrosis Transmembrane Regulator), situato sul cromosoma 7, che codifica per l’omonima proteina-canale del cloro presente sulla membrana apicale delle cellule epiteliali la cui funzione è di regolare gli scambi idroelettrolitici. Quando la proteina è assente o alterata si verificano delle anomalie nelle funzioni di trasporto ionico degli epiteli cui seguono alterazioni delle secrezioni esocrine che risultano “disidratate”. Il sudore è molto ricco in sodio e cloro (il dosaggio del cloro nel sudore è un test diagnostico di altissima sensibilità), il muco è denso e vischioso e tende ad ostruire i dotti nei quali viene a trovarsi, compromettendo progressivamente funzione e struttura degli organi interessati. Ad essere colpiti dagli effetti della malattia sono principalmente l’apparato respiratorio, le vie aeree, il pancreas, il fegato, l’intestino e l’apparato riproduttivo, soprattutto nei maschi a causa dell’ostruzione dei dotti spermatici.
Il difetto genico comporta una grande varietà di quadri clinici. La prima e più frequente mutazione del gene è la ∆F 508 (delezione dell’aminoacido fenilalanina in posizione 508 della proteina CFTR), ma ne sono state individuate fino ad oggi più di 1.800 che raccolgono differenti anomalie di produzione o di funzione della proteina. L’incidenza della malattia si stima intorno ad 1 caso ogni 2.500-2.700 nati vivi e la presenza di un portatore sano si manifesta ogni 25-30 individui circa.

Quadro clinico, sintomi ed evoluzione
Quasi tutte le ghiandole esocrine dell’organismo sono coinvolte con interessamento più o meno importante dei diversi organi. Tra le manifestazioni cliniche che si presentano per prime vi sono quelle legate al meconio, una sostanza che, in condizioni di normalità, è leggermente appiccicosa e quasi liquida, dal colore verdastro simile a catrame, priva di odore; tale produzione vischiosa, di regola, viene espulsa dall’ano a partire dalla prima poppata e per un tempo di alcuni giorni. Il meconio è il risultato del progressivo accumulo nell’intestino, durante il periodo prenatale, della bile e delle altre secrezioni prodotte dagli organi dell’apparato digerente, nonché acqua, cellule dell’epidermide desquamate e residui di vernice caseosa. L’ileo da meconio (un tipo di occlusione intestinale, all’altezza dell’ileo, provocata dall’accumulo del materiale che si presenta più denso e vischioso della norma a causa della mancanza di enzimi pancreatici ed intestinali), si verifica alla nascita in circa il 12% dei neonati affetti da FC. Nei neonati che non presentino ileo da meconio, l’inizio è frequentemente dato da un ritardo nel riguadagno del peso della nascita, nonostante il buon appetito. La compartecipazione respiratoria può essere preannunciata da tosse cronica associata ad aumentata frequenza respiratoria, ma senza febbre. Intorno ad 1 anno d’età, circa l’80% di tutti i casi manifesta disturbi respiratori e/o digestivi. I sintomi respiratori, causati inizialmente da fenomeni ostruttivi diffusi, sono spesso interpretati su base allergica. Il progredire della malattia è caratterizzato da infezioni batteriche con bronchiti e broncopolmoniti ricorrenti o croniche, sostenute da batteri particolari come Pseudomonas aeruginosa e Stafilococco aureo. La permanenza di questi batteri determina infezione e infiammazione cronica dei polmoni, un progressivo loro deterioramento, con conseguente declino graduale della funzionalità respiratoria fino all’insufficienza respiratoria.
Il pancreas è interessato in circa l’85% dei malati di FC. I suoi condotti tendono ad ostruirsi e gli enzimi che produce non si riversano completamente nell’intestino per digerire i cibi. Questo causa diarrea con perdita di grassi e malnutrizione, che si manifesta nell’infanzia con difficoltà di crescita in peso e in altezza e nell’adolescenza con pubertà ritardata e magrezza. Nei malati in età più avanzata il progredire del danno pancreatico può portare a una mancata produzione di insulina. Perciò, alcuni soggetti possono sviluppare diabete e avere necessità di terapia con insulina per controllare i livelli di zucchero nel sangue. Spesso si riscontrano altresì ricorrenti dolori addominali, pancreatite, reflusso gastro-esofageo, esofagite e patologia colecistica.
L’infertilità si verifica nel 98% dei maschi per alterato sviluppo dei dotti deferenti o per altre forme di azoospermia ostruttiva. Alcune donne non sono in grado di concepire a causa della vischiosità delle secrezioni cervicali, ma molte altre riescono a portare la gravidanza al termine. Tuttavia, l’incidenza di complicanze in gravidanza è aumentata.
Tra i sintomi più caratteristici della FC, infine, abbiamo una manifestazione che è, di per sé, pressoché innocua, almeno rispetto alle altre citate: l’eccessivo contenuto di elettroliti (Clˉ e Na+) nel sudore, misurabile a livello diagnostico.
Il decorso della malattia è molto variabile e fortemente determinato dalla gravità dell’interessamento polmonare. È doveroso ricordare che la prognosi è migliore per i pazienti diagnosticati precocemente, con una buona adesione al programma terapeutico e in follow-up presso i centri di cura per la FC.
La sopravvivenza media è attualmente di 31 anni. Una più lunga sopravvivenza si osserva in modo significativo nei pazienti senza insufficienza pancreatica.

Trattamento
Il programma terapeutico è volto a contrastare l’evoluzione della malattia e si basa su tre punti fondamentali:
Dieta e trattamento digestivo-nutrizionale
Fisioterapia respiratoria e rimozione delle secrezioni bronchiali (questa pratica è necessaria onde eliminare le secrezioni dalle vie aeree e permettere così una migliore ventilazione polmonare);
Terapia antibiotica delle infezioni respiratorie (deve essere utilizzata nei pazienti sintomatici per i batteri patogeni del tratto respiratorio, sulla base di esami culturali e antibiogrammi).
Terapia dietetica e trattamento digestivo nutrizionale.Nel corso degli anni la dieta nella FC ha acquisito sempre maggior importanza e ha consentito un miglioramento nella qualità di vita dei pazienti permettendo loro di raggiungere un accrescimento adeguato sia del peso che della statura. Come evidenziato in precedenza, nella stragrande maggioranza dei casi, la FC causa una broncopneumopatia cronica suppurativa, una compromissione della funzione digestiva e conseguente malnutrizione che, a sua volta, determina una deplezione del sistema immunitario. La malnutrizione e il ritardo di crescita hanno un notevole impatto sulla prognosi della malattia.
Nonostante l’uso degli enzimi pancreatici sostitutivi non si realizza comunque mai una totale digestione e un totale assorbimento di proteine, lipidi e glucidi. Questo è dovuto sia alla mancanza/riduzione della secrezione degli enzimi e dei bicarbonati da parte del pancreas che al deficit della funzione epatica, con riduzione del pool degli acidi biliari, e anche ad un alterato assorbimento intestinale delle sostanze nutritive e degli acidi biliari stessi. Altri fattori che possono ulteriormente contribuire a compromettere lo stato nutrizionale sono la presenza di un più elevato consumo energetico a causa delle continue infezioni polmonari, della produzione e perdita di abbondanti quantità di escreato e dell’aumentata attività muscolare respiratoria. Alcuni studi sostengono che vi è un eccesso di consumo energetico legato direttamente al difetto di base della malattia. Inoltre, il diabete mellito, specie nei pazienti adulti, la malattia epatica con cirrosi biliare e ipertensione portale possono contribuire a determinare un grave squilibrio energetico.
Per tutti questi motivi, non può esistere un regime dietetico uguale per tutti i pazienti, poiché l’esatto fabbisogno nutrizionale dipende da molti fattori, quali l’età, il sesso, la velocità di crescita che deve essere mantenuta sopra il 90% durante i periodi di rapido accrescimento (infanzia, adolescenza), l’attività fisica, le variazioni di peso, le condizioni cliniche e la presenza di complicanze e di insufficienza pancreatica. Più le condizioni cliniche sono deteriorate, più aumentano le richieste nutrizionali. L’apporto energetico-nutritivo adeguato è quello che in ogni singolo paziente permette un accrescimento staturo-ponderale regolare. Pertanto, il trattamento dietetico deve essere personalizzato e soprattutto differenziato tra pazienti con o senza insufficienza pancreatica. I pazienti pancreas sufficienti generalmente presentano un buon stato nutrizionale e necessitano pertanto di un trattamento dietetico normo o lievemente ipercalorico (kcal 100-120% dei LARN) ed equilibrato nei vari principi nutritivi (proteine 15%, lipidi 30%, carboidrati 55%).
Nei pazienti pancreas insufficienti, invece, il supporto nutrizionale prevede una dieta ipercalorica (Kcal 120-150% dei LARN), aumentata nella quota lipidica e proteica, ricca in sali minerali, soprattutto in estate e durante gli episodi febbrili. Inoltre, durante i pasti devono essere somministrati gli enzimi pancreatici in capsule. Anche se determinano un aumento significativo della steatorrea, sono comunque raccomandate diete ricche di grassi, sia per incrementare la quota energetica, sia soprattutto per non rischiare il deficit di acidi grassi essenziali spesso carenti in questi malati. Inoltre, i lipidi sono fonte di vitamine liposolubili, di acidi grassi essenziali e migliorano la palatabilità degli alimenti. Si consiglia un apporto di lipidi pari al 30-40% delle calorie totali, in particolare 2-5% da acidi grassi essenziali. I soggetti affetti da FC presentano generalmente un deficit di acidi grassi essenziali caratterizzato da bassi livelli plasmatici di acido linoleico (LA) e acido docosaesaenoico (DHA) con incremento dei livelli di acido eicosatrienoico. Il trattamento dietetico deve quindi garantire un livello sufficiente di acidi grassi essenziali e acidi grassi polinsaturi a lunga catena. Spesso l’introduzione di adeguate quantità caloriche diventa irrealizzabile per l’impossibilità pratica di aumentare esageratamente la quantità di cibo ingerita, per cui si rende necessario l’uso di condimenti e alimenti ad alto contenuto calorico come burro, panna, parmigiano da aggiungere alle pietanze. Tuttavia, nei pazienti in cui permane steatorrea può essere utile ridurre la quota lipidica al 30% delle calorie totali con eventuale integrazione di olio MCT (Medium Chain Triglycerides).
Il problema dell’assorbimento delle proteine è stato sicuramente meno studiato di quello dell’assorbimento dei grassi. È stato dimostrato che l’eliminazione di azoto è in media ben tre volte maggiore in pazienti con FC, anche durante la somministrazione di estratti pancreatici. Nelle forme avanzate di malattia polmonare l’ipermetabolismo cronico potrebbe determinare una condizione di malnutrizione, con riduzione della massa muscolare, per aumento del catabolismo muscolare e riduzione dei depositi di proteine dell’organismo. L’anoressia, spesso frequente, aggrava ulteriormente la deplezione proteica in quanto, se l’apporto energetico della dieta è insufficiente, gli aminoacidi assunti tendono ad essere indirizzati verso la sintesi di glucosio e verso l’ossidazione lipidica. Inoltre, maggiore è la steatorrea, minore è l’assorbimento di proteine, anche perché l’attività della chimotripsina è disturbata da una steatorrea patologica. Per questi motivi si raccomanda un apporto di almeno 3g/kg/die di proteine, pari a circa il 15-20% delle calorie totali.
La quota di carboidrati dovrebbe costituire il 45-50% della calorie totali con prevalenza di carboidrati complessi e riduzione degli zuccheri semplici, da ridurre ulteriormente in caso di intolleranza glucidica. Il consumo di zuccheri semplici andrebbe consigliato nella prima colazione o prima dell’attività sportiva, in modo da garantire l’utilizzo a scopo energetico.
L’apporto ottimale di fibre non è stato ancora stabilito, tuttavia è da evitare un alto contenuto perché induce un inutile e dannoso senso di sazietà e può aggravare la sindrome da ostruzione intestinale distale (DIOS).
I pazienti con FC spesso presentano carenza di assorbimento delle vitamine liposolubili, sia a causa dell’insufficienza pancreatica che al ridotto riassorbimento nel circolo enteroepatico degli acidi biliari necessari per una corretta solubilizzazione dei lipidi. Pertanto, è consigliabile un monitoraggio costante dei livelli sierici di vitamine A, D, E e K ed eventualmente una loro supplementazione giornaliera.
Deficit di minerali quali calcio, ferro e zinco sono stati spesso riscontrati in pazienti con FC. Ma è soprattutto il sodio l’elemento più a rischio di deplezione in questi pazienti a cui è consigliabile un aumento del consumo di cibi più salati, specialmente quando sudano molto come accade d’estate o dopo l’esercizio fisico o durante episodi di febbre.
Recenti evidenze scientifiche hanno dimostrato i reali effetti preventivo-terapeutici dei probiotici in alcune condizioni cliniche, incluso la FC. Si è, infatti, evidenziata sia la riduzione degli episodi di insufficienza respiratoria, sia dei processi infiammatori intestinali. È consigliabile l’utilizzo dei probiotici durante la terapia antibiotica al fine di prevenire o trattare la diarrea che spesso viene erroneamente attribuita ad un aumentato malassorbimento e quindi trattata con intensificazione della terapia enzimatica.
L’uso di integratori orali è necessario quando la dieta abituale o la supplementazione calorica con alimenti naturali non sono più in grado di garantire un’adeguata crescita staturo-ponderale. Possono anche essere utilizzati durante gli episodi di infezione respiratoria per compensare la ridotta alimentazione.
Nei pazienti in cui l’intervento dietetico e la supplementazione calorica orale non sono in grado di risolvere il bilancio calorico negativo, si può ricorrere a metodi più invasivi come la nutrizione enterale.
Un incremento della massa muscolare deve essere tra gli obiettivi principali della terapia nutrizionale. La combinazione di un adeguato apporto nutrizionale e di un programma di attività fisica favorisce un aumento della massa muscolare, della massima capacità ventilatoria, dell’ossigenazione e della performance fisica.

L’alimentazione nei primi mesi di vita
Secondo le raccomandazioni dell’European Society for Pediatric Gastroenterology Hepatology and Nutrition (ESPGHAN) e dell’American Academy of Pediatrics (AAP) anche nel bambino con FC è consigliato l’allattamento al seno nei primi 4-6 mesi di vita con adeguata supplementazione enzimatica. Il latte materno, infatti, contiene lipasi ed amilasi che possono compensare la diminuita secrezione pancreatica, fornisce una maggiore protezione immunitaria contro le infezioni ed è ricco di acidi grassi essenziali e di taurina, un aminoacido essenziale necessario per la sintesi degli acidi biliari. L’unico inconveniente del latte materno per il lattante con FC è rappresentato dal basso contenuto di sodio e, pertanto, si consiglia l’aggiunta di sale specie nel periodo estivo o durante gli episodi febbrili.
Se l’allattamento materno non è possibile o è insufficiente si può ricorrere a formule adattate per i primi 4-6 mesi e a latte di proseguimento per i mesi successivi mantenendo la supplementazione di enzimi pancreatici e sale.
Il latte vaccino non dovrebbe essere introdotto prima del primo anno di vita.
Generalmente, i bambini con FC con insufficienza pancreatica presentano una crescita normale con un apporto calorico normale (100-120 kcal/kg) associato all’assunzione di enzimi pancreatici. Qualora l’accrescimento non fosse adeguato, il fabbisogno calorico può aumentare fino a 200 kcal/kg di peso corporeo e si può ricorrere alla supplementazione calorica con miscele di maltodestrine e olio MCT (Medium Chain Triglycerides) o con formule di latte ad alto contenuto energetico.
Come per i bambini sani, lo svezzamento dei bambini con FC è consigliabile a partire dai 4-6 mesi di vita. Gli alimenti nuovi devono essere introdotti in maniera graduale, uno alla volta, adeguando sempre il dosaggio degli estratti pancreatici.

Conclusioni
Le nuove conoscenze acquisite negli ultimi decenni sulla FC e i progressi compiuti nella cura e nel trattamento dei pazienti affetti hanno migliorato notevolmente la prognosi e il decorso della malattia.
Gli aspetti principali della gestione della malattia si basano sulla limitazione del danno polmonare, su un trattamento dietetico adeguato e uno stile di vita attivo. Recenti studi scientifici hanno dimostrato come la malnutrizione sia un fattore predittivo di prognosi negativa nei pazienti con FC e che vi è una stretta correlazione tra lo stato nutrizionale del paziente e l’evoluzione della malattia polmonare.
È importante soprattutto l’adesione a un sistema personalizzato di cure sulla base di controlli clinici frequenti eseguiti presso centri specializzati e con competenze avanzate. Inoltre, è fondamentale un lavoro di equipe con esperienze specifiche per sostenere il paziente nel suo percorso di vita quotidiana: medici, infermieri, nutrizionisti, psicologi, fisioterapisti si adopereranno per istruirlo sull’autogestione delle cure e al mantenimento della motivazione a seguirle, lo incoraggeranno nello svolgimento dell’attività fisica e nella socializzazione, provvederanno ad un sostegno psichico e sociale adeguato, lo aiuteranno ad affrontare le difficoltà scolastiche e lavorative e lo conforteranno nei suoi dubbi, nelle sue incertezze e nelle sue paure.

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PREVALENZA E CAUSE DI SOVRAPPESO E OBESITA' IN ITALIA: LA SITUAZIONE AL 2010

Adolfo Fossataro – Stefania Rosi, AIDAP La Spezia
Fonte: Gallus S, Odone A, Lugo A, Bosetti C, Colombo P, Zuccaro P, La Vecchia C. (2012).
Overweight and obesity prevalence and determinants in Italy: an update to 2010. Eur J Nutr. 2012 May 27.

Nel corso degli ultimi decenni il sovrappeso e l’obesità hanno conosciuto un costante incremento non soltanto nei Paesi con reddito medio più elevato, ma anche in quelli con redditi medi inferiori.

Negli USA, nel periodo 2007/2008 la prevalenza di sovrappeso/obesità totale (Indice di Massa Corporea o IMC > 25) era pari al 68% della popolazione (72,3% per gli uomini e 64,1% per le donne) con una tendenza di crescita significativa degli uomini rispetto al decennio precedente.

Nel corso degli ultimi 30 anni la percentuale di soggetti obesi è più che raddoppiata nella maggior parte dei Paesi del nord Europa, compresi i Paesi Scandinavi e il Regno Unito, così come in alcuni Paesi dell’Europa meridionale. I dati più recenti evidenziano che nel 2008 il 15,5% della popolazione adulta europea era obesa.

Rispetto agli altri Paesi europei, l’Italia riporta una prevalenza e una tendenza di crescita dell’obesità nella popolazione adulta relativamente favorevole. La prevalenza di sovrappeso/obesità aumentò in maniera modesta tra l’inizio degli anni ’80 (nel 1983 il 27% degli adulti era in sovrappeso e il 7% era obeso) e la fine degli anni ’90 (tra il 1999 e il 2004 il 31-34% della popolazione era in sovrappeso e l’8-9% era obeso). Studi successivi su campioni rappresentativi della popolazione italiana evidenziarono che tra il 2001 e il 2008 la percentuale di popolazione in sovrappeso o obesa era aumentata dal 52% al 55,3% per gli uomini e dal 33,6% al 34,5 % per le donne. Al momento attuale l’Italia risulta essere il Paese europeo con la minor prevalenza di adulti obesi. Tuttavia, in Italia ci sono differenze significative di IMC rispetto alle varie aree geografiche: la prevalenza di obesità è all’incirca doppia nelle regioni del sud rispetto a quelle del nord. Inoltre, in Italia così come nel resto dei Paesi europei, ci sono scarse informazioni riguardo alla prevalenza del sottopeso nella popolazione adulta e non esistono dati riguardo alla magrezza da moderata a severa.

Allo scopo di monitorare la situazione del sottopeso, del sovrappeso e dell’obesità in Italia e di identificare i fattori che determinano queste condizioni, Gallus e collaborati dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri (2012) hanno analizzato i dati ricavati da cinque indagini commissionate alla DOXA dall’Istituto Superiore di Sanità ed eseguite tra il 2006 e il 2010. Il totale delle persone esaminate è stato di 14.135 soggetti adulti (6.834 uomini e 7.301 donne) di età superiore a 18 anni selezionate dalle liste elettorali di 122 comuni nelle 20 regioni del territorio italiano in maniera casuale.
I dati sono stati raccolti da intervistatori addestrati, usando un questionario strutturato nel corso di interviste a domicilio con l’ausilio di un personal computer. Oltre a informazioni generali di tipo socio-demografico, agli intervistati è stato chiesto di riferire i propri dati sulla statura e sul peso, da cui è stato ricavato il valore di IMC. L’IMC è stato suddiviso in quattro livelli secondo la classificazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e cioè: sottopeso (< 18,5), normopeso (tra 18,5 e 24,9), sovrappeso (tra 25,0 e 29,9) e obeso (> 30,0). I soggetti che riportavano un IMC < 17,0 sono stati classificati come sottopeso di grado moderato/severo. Inoltre, i soggetti obesi sono stati ulteriormente suddivisi in tre sottoclassi, secondo la gravità (obesità di classe I: IMC tra 30,0 e 34,9; obesità di classe II: IMC tra 35,0 e 39,9; obesità di classe III: > 40,0). Il livello d’istruzione è stato classificato secondo tre fasce: basso (fino al diploma di scuola media inferiore), medio (fino al diploma di scuola media superiore) e alto (fino al diploma di laurea universitaria). L’area di residenza (urbana o rurale) è stata classificata a seconda che il comune di residenza fosse capoluogo di provincia oppure no. Inoltre, sono stati considerati l’età, il livello di istruzione, il reddito (secondo le dichiarazioni degli intervistati o la valutazione dell’intervistatore), lo stato civile, l’area geografica, la zona di residenza, l’abitudine al consumo di bevande alcoliche e di sigarette.

I risultati emersi confermano che tra la popolazione italiana la prevalenza di obesità continua a mantenersi inferiore rispetto alle popolazioni di altri Paesi a reddito più alto. In una recente relazione, l’Italia era stata considerata tra i Paesi con la tendenza più virtuosa in termini di IMC in entrambi i sessi, con un aumento di IMC stimato tra 0,3-0,4% per decade per gli uomini e un decremento di 0,1-0,2% per decade per le donne tra il 1980 e il 2008. Dai dati rilevati in questi ultimi anni, si evidenzia un ulteriore miglioramento, ossia l’IMC resta stabile per gli uomini e decresce leggermente per le donne, nonostante l’invecchiamento progressivo della popolazione generale. La leggera flessione del sovrappeso/obesità tra le donne è limitata all’Italia meridionale. Probabilmente, questo denota una riduzione dell’accettabilità del sovrappeso/obesità nel sud del Paese dove si registra una relativa alta prevalenza di obesità. Analisi stratificate hanno permesso, inoltre, di identificare sottogruppi di popolazione italiana con un’alta prevalenza sia di sovrappeso sia di obesità, così come di sottopeso. Le persone più anziane sembrano essere più a rischio di essere sovrappeso o obese in entrambi i sessi. Al contrario, solo una piccola percentuale di giovani adulti è risultata obesa. Tra le donne, ma non tra gli uomini, è stata registrata una notevole prevalenza di sottopeso, dato che sottolinea il divario sull’incidenza del sottopeso tra i sessi nella popolazione giovane. Questa ricerca fornisce, per la prima volta in Italia e tra le prime volte in Europa, una stima sulla prevalenza delle persone con IMC <17,0. I dati emersi suggeriscono che deve essere posta attenzione sulla prevalenza della magrezza da moderata a severa tra le giovani donne.

Le condizioni socio-economiche sono aspetti determinanti per il sovrappeso e l’obesità. Infatti, gli uomini e le donne con grado d’istruzione inferiore riportano valori di IMC considerevolmente più elevati. Uno studio recente, che ha preso in considerazione i dati provenienti da 19 Paesi europei, ha evidenziato che questo è un fenomeno generalizzato a tutta la popolazione europea, in particolare tra le donne. In Italia, le aree geografiche meno privilegiate (il sud) registrano livelli di IMC più elevati rispetto alle aree più ricche del Paese (il nord). La differenza sulla prevalenza dell’obesità in relazione alle zone geografiche può essere attribuita alla differenza di status sociale, di stile di vita e abitudini alimentari.

Con riferimento allo stato civile, sono stati riscontrati tassi più elevati di sovrappeso/obesità tra gli adulti sposati rispetto ai single e separati/divorziati. Dati simili sono stati riscontrati in indagini su campioni rappresentativi nazionali in altre aree del Mediterraneo. Questi risultati confermano in maniera evidente ciò che è emerso da studi longitudinali, ossia l’associazione tra matrimonio e aumento del peso corporeo e tra separazione/divorzio e perdita di peso corporeo. La relazione tra lo stato civile e il sovrappeso evidenzia quanto gli aspetti sociali possano influire sulla dieta, l’attività fisica e, conseguentemente, sul peso corporeo.

Sebbene in questo studio non sia stata trovata alcuna relazione tra le donne fumatrici e il sovrappeso/obesità, i dati emersi mostrano che, invece, gli uomini fumatori sono più frequentemente sovrappeso/obesi rispetto ai non fumatori. Questi dati sono in parziale disaccordo con altre indagini, da cui emerge che i fumatori hanno un IMC inferiore rispetto a coloro che non hanno mai fumato. Tuttavia, altre ricerche concordano e confermano i risultati di questa indagine. Per esempio, uno studio condotto in Israele su 29.745 giovani adulti ha evidenziato che il numero di sigarette fumate era più basso tra le persone normopeso, un po’ più alto in quelle sovrappeso e più alto ancora tra gli obesi. Inoltre, rispetto ai non fumatori, i fumatori riportavano la maggiore circonferenza vita e il rapporto più alto tra vita e fianchi; tra i fumatori, il numero di sigarette fumate è associato a valori maggiori di obesità e di accumulo di grasso addominale. In aggiunta, gli ex fumatori, erano più spesso sovrappeso/obesi rispetto a coloro che non avevano mai fumato, a conferma dell’evidenza generale che il peso corporeo aumenta in maniera sostanziale in coloro che smettono di fumare.

Nel campione selezionato per questa ricerca, le donne che consumavano alcolici erano meno frequentemente sovrappeso e/o obese rispetto alle astemie; tra gli uomini non è stata osservata nessuna differenza significativa tra bevitori e non bevitori in termini di sovrappeso/obesità. Questi risultati contrastano con studi basati su dati di laboratorio a breve termine sugli effetti sfavorevoli dell’alcool sull’appetito e sul bilancio energetico, ma sono in pieno accordo con l’evidenza generale degli studi epidemiologici secondo cui un modesto introito di alcool è inversamente correlato all’obesità, in particolare nelle donne.
Una limitazione di questo lavoro riguarda l’uso di dati su peso e altezza riferiti dai partecipanti stessi. Questo complica l’interpretazione dei risultati sull’IMC e, cosa ancora più importante, può interferire sulla sottostima dell’IMC e conseguentemente sulla prevalenza di sovrappeso e obesità. È noto, infatti, che le persone tendono a sovrastimare la propria altezza e sottostimare il peso. Tuttavia, in tre studi condotti su larga scala in cui venivano verificati i dati riferiti dai partecipanti adulti misurando peso e altezza, la sovrastima dell’altezza variava tra +0,38 e +1,23 cm negli uomini e tra +0,40 e +0,68 cm nelle donne, mentre la sottostima del peso variava tra +0,30 e -1,85 kg negli uomini e tra -0,85 e -1,40 kg nelle donne. Pertanto, considerando un’analisi pessimistica e sottraendo dall’altezza del campione il livello più elevato di sovrastima osservato nei tre studi e poi aggiungendo al peso del campione il livello maggiore sottostimato, la prevalenza di obesità aumenterebbe al 12,3% negli uomini e all’11,9% nelle donne e risulterebbe ancora notevolmente inferiore rispetto a quella rilevata in Paesi dell’Europa centrale, orientale, occidentale, Nord America e Oceania. In ogni caso, anche la maggior parte delle rilevazioni effettuate in quei Paesi è basata su dati riportati dai partecipanti.

Il punto di forza dello studio consiste nella grandezza e nella rappresentatività del campione selezionato tra la popolazione italiana.

In conclusione, questa indagine delinea un quadro e una tendenza relativamente favorevoli in Italia riguardo alla prevalenza di sovrappeso e obesità rispetto alla maggior parte dei paesi ad alto reddito. Questo può essere in parte dovuto alla “dieta mediterranea” ancora molto diffusa in Italia, alle abitudini alimentari determinate dalla cultura italiana, come pure dall’assenza di un progressivo aumento delle porzioni di cibo. Tuttavia, ci sono specifici sottogruppi della popolazione (soprattutto nell’Italia meridionale), con grado d’istruzione inferiore e livelli di reddito più basso, che hanno un’elevata prevalenza di sovrappeso e obesità.

LA DISMORFIA MUSCOLARE: UN ENIGMA PER IL DSM V. DOVE SI COLLOCA?

Adolfo Fossataro(1), Stefania Rosi(1), Massimiliano Sartirana(2)
(1)UOL AIDAP La Spezia, (2)UOL AIDAP Verona

Introduzione
La dismorfia muscolare è stata identificata nel 1993 in uno studio condotto su culturisti maschi che ha evidenziato caratteristiche cognitive e comportamentali simili alle pazienti con anoressia nervosa (1). Tale studio ha suggerito una prima concettualizzazione della dismorfia muscolare come forma opposta all’anoressia nervosa, e per questo definita “reverse anorexia” o “anoressia inversa”, sottolineando come la distorsione dell’immagine corporea si esprimesse nella convinzione di vedersi piccoli e smilzi a dispetto, invece, di un corpo muscoloso e robusto e nella ricerca incessante di un corpo più robusto e muscoloso. Espressioni comportamentali di questa distorsione sono rifiutare gli inviti sociali, evitare di mostrarsi parzialmente svestiti di fronte agli altri e indossare abiti coprenti anche nel pieno dell’estate per paura di essere percepiti troppo minuti.

Criteri diagnostici proposti

Negli anni a seguire, l’ulteriore ricerca condotta da Pope et al. (2) ha cercato di illustrare il quadro sintomatico di questo disturbo ed è sfociata in un tentativo di classificazione diagnostica.

I criteri diagnosi proposti dagli autori sono i seguenti:

  1. Preoccupazione legata all’idea che il proprio corpo non sia sufficientemente slanciato e muscoloso. Le caratteristiche comportamentali associate includono trascorrere molte ore a sollevare pesi e un’attenzione eccessiva alla dieta.
  2. La preoccupazione si manifesta con almeno due dei seguenti quattro criteri:

• l’individuo trascura importanti attività sociali, occupazionali e piacevoli a causa del bisogno compulsivo di mantenere il suo piano di allenamento e di dieta;

• l’individuo evita situazioni dove il suo corpo viene esposto agli altri o tollera queste situazioni solo con forte angoscia o ansia intensa;

• la preoccupazione legata all’inadeguatezza della taglia corporea o della muscolatura causa angoscia clinicamente significativa o una compromissione delle aree sociali, occupazionali o di altre aree di funzionamento dell’individuo;

• l’individuo continua ad allenarsi, a fare la dieta o a usare sostanze anabolizzanti nonostante sia a conoscenza delle conseguenze fisiche o psicologiche avverse.

L’obiettivo primario della preoccupazione e dei comportamenti è quello di essere troppo minuti o muscolarmente inadeguati cosi distinto dalla paura di essere grassi come avviene nell’anoressia nervosa o dalla preoccupazione eccessiva solo per altri aspetti dell’apparenza come avviene in altre forme di disturbo da dismorfismo corporeo.

Distribuzione
Purtroppo non sono stati condotti studi formali epidemiologici sulla dismorfia muscolare; questo non permette di conoscere il numero di persone affette da questo disturbo. Attualmente è ampiamente accettato che la dismorfia muscolare sia più frequente nei maschi, sebbene siano stati documentati anche casi di donne con severa dismorfia muscolare (3).

La recente ricerca propone che fino al 10% dei culturisti possa essere colpito da questo disturbo (4) e stime prudenti suggerisce che diverse centinaia di migliaia di uomini negli Stati Uniti possano soddisfare i criteri diagnostici proposti per questo disturbo (5). Stime alternative propongono che la prevalenza della dismorfia muscolare sia proporzionale al tasso dell’anoressia nervosa nelle donne (6) e che, come tale, milioni di uomini possano essere colpiti dalla dismorfia muscolare.

Per quanto riguarda l’esordio, l’età di maggior rischio sembra essere intorno ai 19 anni, durante la tarda adolescenza (7), sebbene manchino ricerche sostanziali che supportino tale affermazione.

I problemi legati alla classificazione diagnostica

Una delle questioni più discusse è la collocazione diagnostica della dismorfia muscolare (8-10). Alcuni la considerano un disturbo dell’alimentazione, altri una forma di disturbo da dismorfia corporea, altri ancora una forma di disturbo ossessivo compulsivo. Di seguito sono riportate le argomentazioni proposte dalla ricerca a favore o contro ciascuna di queste ipotesi.

Dismorfia muscolare come disturbo dell’alimentazione

Gli studi che hanno cercato di studiare la collocazione diagnostica di questo problema non hanno trovato relazione tra misurazioni della dismorfia muscolare e somatizzazione; anzi al contrario sono state identificate relazioni tra sintomatologia della dismorfia muscolare e del disturbo dell’alimentazione, suggerendo una sua concettualizzazione al di fuori dello spettro dei disturbi somatoformi (10). Inoltre, è stato rilevato che, al contrario di altri disturbi da dismorfia corporea, la dismorfia muscolare sembri avere caratteristiche cliniche ossessivo compulsive centrate sull’esercizio fisico intenso ed eccessivo e sul seguire di una dieta rigida (simile all’anoressia nervosa) (9).

Gli uomini che ricercano un corpo eccessivamente muscoloso sembrano mostrare un profilo psicologico simile alle persone con un disturbo dell’alimentazione che include punteggi elevati nelle scale del perfezionismo e della preoccupazioni relative all’immagine corporea, alla dieta e all’esercizio fisico (11-12).

Oltre a questo dato, gli uomini con dismorfia muscolare mostrano un profilo simile nelle scale del Disorder Inventory (EDI), a quello degli uomini con disturbo dell’alimentazione. Tale dato suggerisce che il termine “anoressia inversa” possa essere appropriato se si intende la ricerca della muscolarità come il parallelo della ricerca della magrezza (13). Somiglianze simili sono state anche documentate tra donne che perseguono un corpo eccessivamente muscoloso e donne con anoressia nervosa (14-15).

Un’ipotesi che ha portato a scartare la collocazione della dismorfia muscolare nello spettro dei disturbi dell’alimentazione è stata quella che la patologia alimentare sia una caratteristica secondaria del disturbo (7). In realtà, sia i criteri diagnostici proposti per la dismorfia muscolare, che fanno più volte riferimento all’eccessiva attenzione per la dieta e a una necessità compulsiva di seguire il proprio programma di dieta (2), sia diverse ricerche (2,12,16-18) hanno documentato la presenza di problematiche alimentari severe negli uomini con dismorfia muscolare, sottolineando che le pratiche alimentari da sole possano addirittura aggravare la sintomatologia della dismorfia muscolare indipendentemente dai livelli di esercizio fisico (19).

Oltre a questo, se da una parte la gravità dei problemi alimentari nella dismorfia muscolare possono essere stati sottovalutati, il ruolo dell’esercizio fisico può esser considerato più centrale nell’anoressia nervosa rispetto a quello considerato in precedenza (20), in particolar modo nei maschi (21). Infatti, l’esercizio fisico eccessivo e compulsivo è stato identificato nell’80% dei casi di anoressia nervosa in fase acuta (22-23), e i pazienti con anoressia nervosa che hanno un esercizio fisico eccessivo e compulsivo riportano punteggi più elevati di psicopatologia (24). Lo stile cognitivo di questo esercizio, che si caratterizza per l’adozione di regole rigide sul tipo e intensità di esercizio da svolgere, per il fatto che diventa prioritario su altre attività importanti per l’individuo e per una estrema angoscia se si è impossibilitati a svolgerlo, è molto simile a quello che si osserva negli individui con dismorfia muscolare (5,7).

Un’ulteriore argomentazione a favore della categorizzazione della dismorfia muscolare come disturbo dell’alimentazione è la relazione tra i due disturbi nel tempo. Più precisamente oltre il 29% degli uomini colpiti da dismorfia muscolare ha precedentemente sofferto di un disturbo dell’alimentazione di gravità clinica, un tasso molto più elevato di quello trovato nella popolazione generale o negli individui con altre condizioni psichiatriche (13).

La progressione tra diversi disturbi dell’alimentazione è coerente con l’ipotesi del modello transdiagnostico dei disturbi dell’alimentazione (25) che sostiene che tutti i disturbi dell’alimentazione condividano una comune patogenesi e, come tale, che la migrazione tra i disturbi dell’alimentazione sia comune (26). Inoltre, nella teoria transdiagnostica, l’eccessiva valutazione del peso e/o della forma del corpo è considerata la psicopatologia specifica e centrale dei disturbi (25): una psicopatologia che appare presente, almeno per quel che riguarda l’eccessiva valutazione della forma del corpo (muscolosa), anche nella dismorfia muscolare. A supporto del modello trandiagnostico la ricerca ha evidenziato che la dismorfia muscolare può essere efficacemente trattata con approcci sia psicologici (27) che farmacologici (28) utilizzati nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione a conferma ulteriore dell’inclusione della dismorfia muscolare all’interno della dimensione del disturbo dell’alimentazione.

Anche i risultati di studi sui gemelli e sulla famiglia hanno evidenziato una sorprendente presenza di dismorfia muscolare nei gemelli di maschi che soffrono di anoressia nervosa, suggerendo che la dismorfia muscolare possa essere una manifestazione fenotipica alternativa dei disturbi dell’alimentazione negli uomini (29).

Dismorfia muscolare come disturbo ossessivo compulsivo

Alcuni ricercatori hanno suggerito di collocare la dismorfia muscolare all’interno dello spettro dei disturbi ossessivo compulsivi (10,30-31). Secondo questi ricercatori il vantaggio teorico di concettualizzare la dismorfia muscolare come un disturbo ossessivo compulsivo è indirizzare il trattamento sull’esercizio fisico anomalo piuttosto che sull’inadeguatezza del corpo dato che l’insoddisfazione corporea è comune nella popolazione generale (30).

A sostegno di questa ipotesi, uno studio ha evidenziato che la sintomatologia della dismorfia muscolare è predetta da una combinazione di caratteristiche ossessivo compulsive, insoddisfazione corporea e ostilità (10). Il limite dello studio consiste, però, nel fatto che il valore predittivo delle caratteristiche ossessivo compulsive nella dismorfia muscolare erano largamente mediate dall’ostilità e dall’insoddisfazione corporea. I dati di questo studio sono un’ulteriore prova a sostegno della proposta di includere la dismorfia muscolare all’interno della categoria diagnostica dei disturbi dell’alimentazione perché l’insoddisfazione corporea è implicata nella patogenesi e presentazione sintomatica del disturbo dell’alimentazione (32-33), ma non nel disturbo ossessivo compulsivo. In questo studio, poi, gli strumenti utilizzati non erano sufficientemente appropriati per identificare accuratamente la presenza di un disturbo dell’alimentazione nei maschi, impedendo di capire il ruolo che il disturbo dell’alimentazione può avere nel predire i sintomi della dismorfia muscolare.

Infine, la categorizzazione della dismorfia muscolare all’interno dello spettro dei disturbi ossessivo compulsivi è incoerente con la natura genere specifica sia della dismorfia muscolare sia dei disturbi dell’alimentazione visto che i disturbi ossessivo compulsivi sono ampiamente bilanciati tra i due generi (34).

Dismorfia muscolare come disturbo da dismorfismo corporea

A dispetto del consenso che la dismorfia muscolare non abbia caratteristiche o somiglianze con le somatizzazioni, alcuni definiscono la dismorfia muscolare come una forma particolare di disturbo da dismorfismo corporeo. In realtà, le argomentazioni a favore di questa ipotesi sono molto deboli.

Innanzitutto, gli individui con dismorfia muscolare hanno una maggior consapevolezza relativa al loro difetto di percezione sull’apparenza rispetto a quelli con disturbo da dismorfismo corporeo (13). Poi, sia gli individui con disturbi dell’alimentazione sia quelli con dismorfia muscolare riportano una peggiore psicopatologia e un maggior malfunzionamento psicosociale (35) rispetto a quelli che soffrono di disturbo da dismorfismo corporeo. In particolare gli individui con dismorfia muscolare riportano una peggiore qualità di vita e una maggiore ideazione suicidaria in confronto agli individui che hanno ricevuto una diagnosi di disturbo da dismorfismo corporeo (36-37).
Questi dati nuovamente supportano la concettualizzazione della dismorfia muscolare all’interno dei disturbi dell’alimentazione e come categoria distinta dal disturbo da dismorfismo corporeo.

Conclusioni
La lettura della ricerca fin qui condotta ci induce a considerare la possibilità di una ricategorizzazione della dismorfia muscolare come un disturbo dell’alimentazione date le similarità tra le due condizioni sia nella sintomatologia, incluse le pratiche alimentari disturbate, nella distribuzione, nella migrazione temporale, nella psicopatologia, nella patogenesi, nella trasmissione familiare e nella risposta al trattamento.
Le prove a sfavore di tale conclusione sono molto deboli. Le ricerche che hanno cercato di evidenziare delle differenze tra disturbi dell’alimentazione e dismorfia muscolare hanno prodotto risultati inconsistenti. Le differenze emerse riguardano soprattutto i punteggi nelle sottoscale bulimia, consapevolezza enterocettiva e sfiducia interpersonale dell’EDI, risultate significativamente più alti negli individui con anoressia nervosa (10). Inoltre, è stato evidenziato che gli individui con anoressia nervosa riportano punteggi più elevati nella sottoscala impulso alla magrezza dell’EDI (12). Questo dato non è sorprendente dato che la caratteristica principale dell’anoressia nervosa è la ricerca della magrezza e non, come nella dismorfia muscolare, l’impulso verso la ricerca di un corpo muscoloso/imponente.

In realtà, pochi studi hanno confrontato direttamente l’anoressia nervosa maschile con la dismorfia muscolare. Inoltre, le poche ricerche condotte soffrono di limiti metodologici come l’aver confrontato i maschi con anoressia nervosa con in maschi culturisti. Tale confronto è problematico perché i maschi culturisti non necessariamente hanno la dismorfia muscolare. La maggior parte dei maschi culturisti, infatti, non presenta due preoccupazioni chiave della dismorfia muscolare: 1) l’evitare situazioni dove il corpo viene esposto agli altri (il tipico culturista tende a mostrare invece il suo corpo in modo esibizionistico); 2) la compromissione delle aree sociali e occupazionali in conseguenza della preoccupazione legata all’inadeguatezza della taglia corporea o della muscolatura. Questa metodologia può portare a minimizzare le preoccupazione per l’alimentazione di maschi con la dismorfia muscolare (12). Un altro limite di questi studi è dato dal fatto che vengono utilizzati prevalentemente strumenti di valutazione costruiti e validati su campioni di individui femmine con disturbo dell’alimentazione come l’EDI (38) che possono non essere appropriati per valutare l’insoddisfazione corporea e la patologia alimentare degli uomini.

Anche le differenze di genere che si riscontrano (i maschi più colpiti nella dismorfia muscolare rispetto alle donne nell’anoressia nervosa) non possono essere portate a supporto di una differenza tra i due problemi. I due disturbi sono concettualmente molto simili differendo solamente in funzione dell’ideale corporeo stabilito culturalmente.
Dati questi problemi, le conclusioni di queste ricerche sulle differenze nella psicopatologia del disturbo dell’alimentazione possono essere considerate premature e non valide. La futura ricerca, se vuole trarre delle conclusioni più significative nelle differenze tra maschi e femmine nell’aree dell’immagine corporea e dell’alimentazione, dovrà necessariamente costruire strumenti di valutazione più sensibili alla presentazione sintomatica dei maschi con preoccupazioni legate a queste aree (10,39-40). Questo potrebbe aiutare a differenziare sottocategorie significative di disturbi dell’alimentazione non altrimenti specificati, che sono la categoria più prevalente tra i disturbi dell’alimentazione e meglio comprendere l’esperienza dei disturbi nell’alimentazione, nel peso e nella forma del corpo nei maschi. Oltre a questo la collezione di campioni transdiagnostici più numerosi sottoposti a uguali protocolli di trattamento potrebbe dare ulteriore chiarezza sulla collocazione diagnostica di questo disturbo e sulla costruzione di una classificazione diagnostica di maggiore utilità clinica.

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